Baillet
En ce qui concerne certains changements de valeur des mots qui indiquent clairement un changement radical de la vision du monde, le cas le plus caractéristique est peut-être celui du terme labor. En latin, ce terme avait essentiellement un sens négatif. Il pouvait désigner dans certains cas l’activité en général – comme par exemple dans l’expression labor rei militaris, activité dans l’armée. Mais son sens courant exprimait une idée de fatigue, d’épuisement, d’effort désagréable, et parfois même de disgrâce, de tourment, de poids, de peine. Le terme grec ponos avait un sens analogue. Ainsi, laborare pouvait aussi signifier souffrir, être angoissé, tourmenté. Quid ego laboravi ? veut dire : pourquoi ME suis-je tourmenté ? Laborare ex renis, ex capite signifie : souffrir du mal de reins ou de tête. Labor itineris : la fatigue, le désagrément du voyage. Et ainsi de suite.
De sorte que jamais le Romain n’aurait pensé à faire du labor une espèce de vertu et d’idéal social. Et qu’on ne vienne pas nous dire que la civilisation romaine a été une civilisation de lambins, de fainéants et d’“ oisifs ”. La vérité, c’est qu’à l’époque on avait le sens des distances. Au “ travailler ” s’opposait l’agere, l’agir au sens supérieur. Le “ travail ” correspondait aux formes sombres, serviles, matérielles, anodines de l’activité humaine, en référence à ceux chez qui l’activité n’était provoquée que par un besoin, une nécessité ou un destin malheureux (car l’Antiquité connut aussi une métaphysique de l’esclavage). A eux s’opposaient ceux qui agissent au sens propre du terme, ceux qui entretiennent des formes d’activité libres, non physiques, conscientes, voulues, dans une certaine mesure désintéressées. Pour celui qui exerçait une activité matérielle, certes, mais possédant un certain caractère qualitatif, et qui le faisait à partir d’une vocation authentique et libre, on ne parlait déjà plus de “ travail ” ; celui-là était un artifex (il y avait également le terme opifexl, et ce point de vue fut aussi conservé dans l’atmosphère et le style des corporations artisanales traditionnelles.
Le changement de sens et de valeur du terme en question est par conséquent un signe très clair de la vulgarité plébéienne qui a gagné le monde occidental, une civilisation qui repose toujours plus sur les couches les plus basses de toute hiérarchie sociale complète. Le “ culte du travail ” moderne est d’autant plus aberrant qu’aujourd’hui plus que jamais, avec l’industrialisation, la mécanisation et la production anonyme de masse, le travail a nécessairement perdu ce qu’il pouvait avoir de meilleur. Cela n’a pourtant pas empêché certains de parler de “ religion du travail ”, d’“ humanisme du travail ” et même de souhaiter un “ État du travail ”. On en est arrivé à faire du travail une sorte d’impératif éthique et social insolent, applicable à tous, devant lequel on a envie de répondre par ce proverbe espagnol : El hombre que trabaja perde un tiempo precioso (l’homme qui travaille perd un temps précieux).
En une autre occasion, nous avions déjà relevé l’opposition suivante entre le monde traditionnel et le monde moderne : dans le premier, même le “ travail ” put prendre la forme d’une “ action ”, d’une “ oeuvre ”, d’un art ; dans le second, même l’action et l’art prennent parfois la forme du “ travail ”, c’est-àdire d’une activité obligatoire, opaque et intéressée, d’une activité qu’on ne poursuit pas en fonction d’une vocation, mais du besoin et, surtout, en vue du profit, du lucre. (EVOLA – L’Arc et la Massue)
Original
Solo in parte II significato antico si è conservato nella parola moderna, ed è, di nuovo, il suo aspetto meno interessante. Ingenium nell’antica lingua latina indicava anche la perspicacia, l’acutezza di mente, la sagacia, l’avvedutezza – ma, in pari tempo, la parola rimandava al carattere, a ciò che in ognuno è organico, innato, veramente proprio. Vana ingenia potè, dunque, significare persone senza carattere; redire ad ingenium potè dire tornare alla propria natura, ad un modo di vita conforme a quel che veramente si è. Questo più importante significato è andato perduto nella parola moderna, a tal segno da dar luogo quasi ad una antitesi. Infatti, se l’«ingegno» lo si intende in senso intellettualistico e dialettico, si ha qualcosa di evidentemente opposto al secondo significato incluso nel termine antico, che rimanda al carattere, ad uno stile conforme alla propria natura; è superficialità di contro a organicità, è moto irrequieto, brillante e inventivo della mente di contro ad un rigoroso stile di pensiero aderente al proprio carattere.
10 – Labor. Per quel che concerne certi cambiamenti del valore delle parole che indicano chiaramente un radicale mutamento di visione della vita, il caso più caratteristico è forse quello del termine labor. Nell’antica lingua latina questo termine aveva, in prevalenza, un significato negativo. Se, in alcuni casi, poteva designare l’attività in genere – come, ad esempio, nell’espressione labor rei militaris, attività nell’esercito – pure nel significato predominante esprimeva l’idea di una fatica, di un affanno, di uno (50) sforzo sgradevole, non solo, ma anche quello di una disgrazia, di una molestia, di un peso, di una pena. Il termine greco kóvck; aveva un significato analogo. Così il termine laborare poteva anche dire soffrire, essere in angustie, esser tormentato. Quid ego laboravi? significa: per che cosa mi sono tormentato? Laborare ex renis, ex capite significa: soffrire di mal di reni o di testa. Labor itineris vuol dire: la fatica, il disagio del viaggio. E così via.
Per cui, mai al Romano sarebbe venuto in mente di fare del labor una specie di virtù e di ideale sociale. Non ci si verrà a dire che l’antica civiltà romana sia stata una civiltà di perditempo, di fannulloni, di «oziosi». La verità è che allora si aveva il senso delle distanze. Al «lavorare» si contrapponeva l’agere, l’agire in senso superiore. Il «lavoro» corrispondeva alle forme oscure, materiali, servili, anodine dell’attività umana, con riferimento a coloro pei quali l’agire era determinato solo da un bisogno, da una necessità o da una infausta sorte (l’antichità conobbe, fra l’altro, una metafisica della schiavitù). Di contro a loro stava chi agisce in senso proprio, chi svolge forme di attività libere, non fisiche, consapevoli, volute, in una certa misura disinteressate. Già per chi esercitava attività materiali sì, ma con un certo carattere qualitativo e in base ad una vera, libera vocazione, il termine «lavoro» non si applicava; egli era un artifex (v’era anche il termine opifex) e l’orientamento corrispondente si è mantenuto anche in tempi successivi, nel clima e nello stile delle corporazioni artigiane tradizionali.
Il mutamento di significato e di valore della parola in quistione è, pertanto, un segno chiarissimo della plebeizzazione verificatasi nel mondo occidentale, di una civiltà che sta prendendo sempre più forma in funzione degli strati più bassi di ogni gerarchia sociale completa. Il moderno «culto del lavoro» è tanto più aberrante perché oggi quanto mai il lavoro, in regime di industrializzazione, di meccanizzazione e di produzione anonima di massa, ha necessariamente perduto ogni sua eventuale, più alta valenza. Ciò malgrado si è giunti a parlare di una «religione del lavoro», di un «umanesimo del lavoro» e di uno «Stato del lavoro», a fare del lavoro una specie di insolente imperativo etico e sociale per ognuno, a sfregio del quale si sarebbe quasi portati a far valere il detto spagnolo El hombre que trabaja pierde un tiempo precioso (l’uomo che lavora perde un tempo prezioso).
In genere, in altra occasione abbiamo avuto modo di rilevare che il mondo tradizionale si contrappone a quello moderno pel fatto che, mentre nel primo perfino il «lavoro» potè spesso assumere i caratteri di una «azione», di una «opera» e di un’arte, oggi accade che perfino l’azione e l’arte assumano i caratteri di un «lavoro», ossia di una attività vincolata, opaca e interessata svolta in base non ad una vocazione ma al bisogno e soprattutto in vista del guadagno, del lucro1.